Cosa ci accadrà?

a cura di EM

Venerdì 27 settembre ci sarà la presentazione del libro di Mauro Bonaiuti “La grande transizione” a Roppolo (BI) presso il Polivalente in via Marconi alle ore 21.00. Il libro di Mauro Bonaiuti, economista che insegna finanza etica a Torino, è uscito nei mesi scorsi nelle librerie. Ecoredia e i Semi di Serra organizzano questa presentazione perchè pensano che possa aiutarci a capire le radici della crisi in cui ci troviamo e quali sono gli scenari del prossimo futuro che si possono ipotizzare, sia quelli socialmente desiderabili che quelli indesiderabili.
Vi proponiamo qui parte di un recente articolo di Mauro Bonaiuti.


Dal declino alla società socialmente desiderabile

Uno nuovo spettro si aggira per il Pianeta – lo spettro della “decrescita reale”.
Dopo la crisi iniziata nel 2008, con i milioni di nuovi disoccupati, la mancata ripresa dell’economia, il senso di precarietà e insicurezza sempre più diffusi, il sospetto che ci troviamo di fronte a qualcosa di più di una semplice crisi congiunturale sta cominciando a farsi strada. Qualche voce fuori dal coro, parla ormai esplicitamente di una “grande stagnazione” (Cowen, 2011) anche se le fonti ufficiali si affrettano a diffondere messaggi rassicuranti: “i mercati finaziari sono sotto controllo”, “la crescita ritornerà”, “il motore del capitalismo è sano” (Paul Krugman).
Eppure già ben prima della crisi, voci autorevoli si erano levate per affermare con chiarezza che quello che le società capitalistiche stavano attraversando andava ben oltre la semplice crisi congiunturale per assumere la valenza di una vera e propria crisi “di sistema”, una crisi, cioè al tempo stesso economica, ecologica, sociale e culturale.
Il malessere sempre più diffuso, generato dal sovrapporsi delle diverse dimensioni della crisi, ha fatto crescere in questi ultimi anni l’attenzione attorno a proposte radicalmente “alternative” tra cui quella di una “società di decrescita” (Latouche, 2011). Eppure, questa, come altre proposte, non sfugge dall’accusa di un certo “idealismo”. In altre parole il progetto di una “società dell’abbondanza frugale” avanzata dagli obiettori di crescita, viene vista ancora da molti, sopratutto a sinistra, come una proposta fondamentalmente “velleitaria”, nel senso di essere destinata, come tutte le iniziative di cambiamento che fanno leva prevalentemente su imperativi morali, a restare sostanziamente minoritaria. Il punto è chiaro, se si accusa la decrescita di idealismo è perchè, nonostante la crisi e i timori sempre più diffusi, è convinzione profonda che in qualche misura la crescita ritornerà, dissolvendo ogni velleità di trasformazione radicale.
In altre parole ogni programma economico e politico, sia a destra come a sinistra, si basa sul presupposto di un futuro ritorno alla crescita. Ma se non fosse così? In altre parole esistono motivi scientificamente fondati per ritenere che l’età della crescita stia volgendo al termine?
Molte civiltà del passato si sono basate su una visione ciclica delle dinamiche evolutive della società. Per secoli storici e uomini politici, hanno condiviso l’opinione comune secondo cui gli imperi e le civiltà prima crescono e poi decadono. In analogia con i sistemi viventi, si riteneva che anche le società andassero incontro ad una inevitabile succesione di fasi: espansione, maturità, declino (Ferguson, 2010). E’ solo la modernità capitalista a rompere definitivamente con questa visione, per sostituirla con una concezione del tempo lineare e progressiva e giungere, in verità solo in tempi molto recenti, alla convinzione che il progresso tecnologico, e di conseguenza la crescita economica, potesse continuare all’infinito. La crescita continua del Prodotto Interno Lordo, in particolare dal secondo dopoguerra, è divenuta il simbolo e al tempo stesso il principale ancoraggio statistico di questa visione.
Eppure basta scendere un poco in profondità, al di sotto dei flussi incessanti delle cifre sugli andamenti economici di breve periodo, per accorgersi che qualcosa è cambiato.
Consideriamo, ad esempio, alcuni dati di lungo periodo relativi alla produttività totale dei fattori produttivi. Per quanto la produttività sia un indice controverso (a causa delle trasformazioni qualitative che nasconde) esso è sufficente a suggerire l’idea che ci preme evidenziare qui e cioè che, a partire grossomodo dalla metà degli anni settanta, qualcosa sia cambiato nella dinamica del sistema capitalistico. I paesi capitalistici avanzati, come gli USA, sembrano essere entrati in una fase di relativo declino, o più propriamente di “rendimenti decrescenti”.
Comprendiamo dunque come insistere sulla lettura congiunturale della crisi e sul prossimo ritorno della crescita sia in realtà una strategia conservativa che consente di non mettere in discussione, nè in termini immaginari nè tantomeno in termini strutturali, la continuità delle istituzioni esistenti. Tuttavia è evidente che ignorare le dinamiche in corso, o limitarsi alla cura dei sintomi, non porta a risolvere alcun problema ma al contrario spinge il sistema verso una fase di instabilità, a partire dalla quale è molto probabile che si verifichi una “grande transizione,” più o meno repentina, verso nuovi assetti istituzionali. Quattro sono a nostro avviso i possibili scenari. Non abbiamo qui lo spazio per indagarli compiutamente, acceneremo solo ad alcuni aspetti salienti.
Il primo è il collasso della società. Il processo di rendimenti decrescenti, se ignorato, superata una seconda soglia di mutazione, porta generalmente ad una perdità incontrollata di complessità del sistema. E’ stato in effetti questo il destino dell’Impero Romano, della civiltà Maya o dell’Isola di Pasqua. Esistono già una serie di segnali che possono essere letti in questo senso: dal crollo dell’Impero sovietico ad una generalizzata frammentazione degli Stati Nazionali (passati da 51 del dopoguerra ai circa 200 attuali), per continuare con il collasso di alcune economie più deboli o fortemente indebitate come l’Argentina, l’Islanda o la Grecia. Prosegue inoltre il fenomeno delle rivendicazioni di autonomia da parte di alcune regioni che, avvertendo il declino, tentano di sganciarsi dalle sorti degli stati nazione (Hobsbawm, 2000).
Un secondo scenario è quello che comporta qualche forma di involuzione autoritaria o tecnocratica. Non va mai dimenticato che si tratta di un tipo di evoluzione che il sistema capitalistico ha già conosciuto nel corso del XX secolo, ben descritta da Karl Polanyi nella Grande trasformazione (1974). La grave crisi finanziaria della fine degli anni ’20 si trasferì all’economia reale generando disoccupazione e disagio sociale. La reazione alla crisi, il protezionismo, le tensioni sui salari e sulla moneta (e, aggiungeremmo oggi, le manovre speculative e la crisi del debito pubblico), comportarono quella paralisi istituzionale su cui si inserì la reazione autoritaria.
Cosa tuttavia, obietteranno gli economisti, impedisce un efficace e duraturo rilancio dell’economia? E’ evidente che il ritorno a condizioni di crescita stabile risolverebbe tutti i problemi e le angosce sottese ai primi due scenari. Le soluzioni prometeiche che, nella storia, hanno consentito un vero salto di scala nella complessità dell’organizzazione sociale sono state pochissime e hanno sempre comportato una nuova modalità di trasformazione qualitativa dell’energia. Purtroppo non esistono segnali all’orizzonte che lascino presagire l’avvento di un tale novello Prometeo. Al contrario le stime di cui disponiamo prevedono, entro alcuni decenni, il raggiungimento del picco nella disponibilità totale di energia (Chefurka, 2007). Con una disponibilità energetica in contrazione i vincoli termodinamici ci impediscono di immaginare l’avvento di una nuova fase espansiva a livello globale.
In questa cornice arriviamo a comprendere la ragionevolezza delle proposte che auspicano l’avvento di una transizione verso una società resiliente o di “derescita serena”(Latouche, 2011). Al di la degli slogan, questa strategia consisterebbe in una progressiva e consapevole “decomplessificazione” della megamacchina tecnoeconomica, a partire dalla “deglobalizzazione” dell’economia, riducendo la scala e i costi dei grandi apparati (pubblici e privati) e favorendo una rilocalizzazione dell’economia (e dei relativi flussi di materia/energia). Questo consentirebbe non solo di mettere il sistema al riparo dai rischi di un collasso repentino, ma invertirebbe la dinamica dei rendimenti decrescenti, garantendo un aumento del benessere sociale. Dovrebbe essere chiaro, inoltre, che questo processo di decentramento, costituirebbe al tempo stesso una grande opportunità per la democrazia e l’autonomia, cioè per il controllo sociale della tecnologia, in altre parole per un nuovo progetto di società. Prima che l’insensatezza abbia il sopravvento, riconoscere e, per quanto possibile, comprendere il tipo di dinamiche in cui siamo inseriti ci sembra condizione necessaria per accompagnare la grande transizione verso un progetto di futuro che, per quanto impossibile da progettare a tavolino e inevitabilmente conflittuale, possa ancora considerarsi socialmente desiderabile.

A cura di EM

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